Riflettendo sul G8 2001, mi sembra utile quest’intervista – uscita allora sul manifesto – a Claudio Sabattini: il segretario della Fiom analizza quei fatti e spiega perché portò i metalmeccanici a Genova e… nel movimento
Botte all’americana
“Non è il Cile di Pinochet, è l’America di Bush”. Claudio Sabattini, segretario della Fiom, è tornato da Genova con un’idea precisa, che contesta le semplificazioni sull’operato delle forze dell’ordine e del governo italiano e rilancia l’analisi sul dominio dell’impero americano, su una globalizzazione liberista “naturalmente” autoritaria, che persegue l’annientamento di tutti coloro che vengono cosiderati “nemici” e la preclusione della democrazia partecipatica, a partire dalle manifestazioni di piazza: “E quello che ho visto a Genova, il raid notturno alla scuola Diaz in primo luogo, non mi ha ricordato lo stadio di Santiago, ma la repressione degli studenti dell’università di Berkley, cui si è ispirato il film Fragole e sangue”.
Ma lo specifico italiano, il governo Berlusconi, come articolano il modello americano di cui parli?
La scelta di Berlusconi di aderire completamente alle politiche dell’amministrazione Bush (dal trattato di Kyoto allo scudo spaziale) non è, in assoluto, una novità per il sistema politico italiano e per i suoi governi. La novità – in un panorama di continuità dei rapporti italo-americani – è costituita dallo sfondo, cioè dalla forte attrazione che gli Usa impongono al resto del mondo in un’epoca di globalizzazione, dettando tutte le scelte economiche e sociali. Così si va oltre alle tradizionali relazioni politiche (come quelle tipiche della guerra fredda) e si entra su un terreno più strutturale, più profondo. Non è un caso che l’Europa politica non riesca a fare un passo in avanti restando ferma a un accordo monetario, perdendo qualunque tipo d’autonomia anche sul piano del modello sociale nei confronti del modello americano che si muove su un piano di estremo liberismo. Lo stesso G8 di Genova si è misurato con l’imperio dell’amministrazione Usa, che ha perfino snobbato il vertice predeterminandone tutte le scelte proprio in un momento in cui ha aperto una nuova fase sul piano militare ed economico. E, a oggi, le resistenze di alcuni paesi europei non hanno alcuna possibilità di condizionare gli Usa: l’imperio della strategia americana si sta mostrando in tutta la sua forza. E’ in questo quadro che la contestazione contro la globalizzazione liberista – che è fondamentalmente la contestazione dei disegni imperiali americani di dominio sull’intero pianeta – trova di fronte a sé una reazione pienamente coerente con il modo in cui le amministrazioni Usa hanno sempre affrontato le opposizioni che contestavano i nodi cruciali di quel potere. Si pensi alla distruzione dei Black Panters e alla repressione feroce dei sindacati statunitensi: decapitati fisicamente, in epoche diverse, gli uni e gli altri.
Quali sono questi nodi cruciali che si vorrebbero indiscutibili, al punto da difenderli con tanta violenza?
La contestazione antiliberista mette in luce la trama della finanza internazionale, il ridurre tutto (donne, uomini, ambiente, risorse naturali, il lavoro) a pura merce che si compra e si vende come un qualsiasi barattolo di noccioline. Per questo, per i poteri forti, non deve esistere un movimento mondiale antiglobalizzazione, per questo il conflitto è trattato alla stregua del terrorismo. E questa è la principale lezione che si è voluto dare nelle strade di Genova.
Al punto da stracciare qualunque diritto con una repressione feroce?
L’intervento dei vertici delle forze dell’ordine italiane non è stato di carattere “semplicemente” repressivo. Il punto focale non era una zona rossa da difendere a tutti i costi. La logica politica di quelle giornate è stata quella di stroncare un movimento che è considerato pericoloso, soprattutto se è pacifico e democratico. In questo senso l’operato delle forze dell’ordine ha teso a confondere tutto in un unico calderone per dimostrare che il Genova social forum era un nemico della globalizzazione e che, pertanto, andava distrutto. Le tecniche possono sembrare tradizionali (l’uso dei gruppi violenti per farli coincidere con la manifestazione pacifica e il conseguente racconto dei media), ma la logica politica è di affermare che le manifestzioni libere e democratiche non possono contestare la globalizzazione liberista. Il blitz di sabato notte ne doveva essere la prova finale. Poi la magistratura può anche essere chiamata a punire gli eccessi, ma resta la lezione politica: quei nemici del liberismo devono essere distrutti.
Come ha reagito questo nascente movimento alle giornate di Genova?
Io credo che i piani distruttivi non abbiano avuto l’esito sperato. Il movimento non è stato stroncato, anzi, seppur provato da inaudite violenze, ha trovato martedì scorso una grandissima solidarietà nella società italiana ed europea. Persino il quadro politico istituzionale ne ha risentito e molte forze oggi si chiedono se sia stato stravolto il sistema giuridico e abbiano cambiato la carta costituzionale, visto che la forza più pericolosa per la globalizzazione americana è proprio la democrazia, cioè l’iniziativa di massa consapevole, in un contesto internazionale in cui tutti gli organismi nati dalla seconda guerra mondiale (a partire dall’Onu) dimostrano la loro fragilità e incapacità d’agire.
Se c’è un risveglio della sinistra parlamentare è un po’ tardivo e il quadro politico rimane ancora un sordo alle motivazioni di fondo del movimento. Non c’è il rischio che centro-destra e centro-sinistra appaiano a chi scende in piazza uguali tra loro?
Saranno il giudizio sulla globalizzazione e l’agire politico nei confronti dei suoi esiti, a chiarire la distinzione tra destra e sinistra. Due schieramenti che si sono sempre ricollocati rispetto al significato di modernità e sviluppo, tra chi accetta l’aumento della disegueglianza e chi lo combatte. In fondo la parola d’ordine “un altro mondo è possibile”, che a prima vista può apparire ovvia e antica, ridisegna l’opposizione ai processi reali di dominio. Che non risparmiano nessuno e aumentano l’area dell’esclusione.
Ma il movimento sceso in piazza a Genova non sembrava fatto di esclusi, anzi al suo interno c’erano quei soggetti che più di altri sono al centro dei processi di trasformazione del capitale globalizzato…
Certo, ma proprio perché socialmente centrali, sono esclusi dalle decisioni fondamentali dei governi e dei poteri forti, le subiscono. E, contemporaneamente, rappresentano i miliardi di esclusi che patiscono il dominio incontrollato delle grandi multinazionali, le quali operano segretamente proprio nell’era delle reti e della comunicazione globale.
Segretamente?
Sì. Operare segretamente oggi è una condizione essenziale del potere, che significa agire senza alcun controllo sociale o politico, cioè senza un rapporto con la rappresentanza per come l’abbiamo conosciuta nella storia dell’occidente; cioè senza democrazia. Senza questa segretezza non è possibile controllare la globalizzazione: ciò avviene anche per la ricerca scientifica, si pensi al recente caso del Sud Africa e dei brevetti anti Aids. Quei brevetti sono la chiave fondamentale per ricondurre tutto al profitto come unico criterio fondante.
Ma tutto questo che c’entra con i migliaia di metalmeccanici presenti a Genova, con la Fiom che conferema la sua adesione al Gsf?
Per noi c’è un rapporto strettissimo e inscindibile tra i metalmeccanici – e più in generale l’intero mondo del lavoro dipendente – e la lotta democratica contro questa globalizzazione. Anche i meccanici, soprattutto i giovani, considerano la democrazia la condizione insostituibile per difendere se stessi e avere una prospettiva di futuro migliore. Oggi mettiamo radicalmente in discussione l’esistenza di poteri che decidono in maniera incontestabile per il singolo lavoratore come per il loro insieme. Il contratto separato e la reazione a esso con lo sciopero del 6 luglio ne è una prova. La domanda fondamentale che i lavoratori fanno nelle assemblee a chi ha firmato il contratto con Federmeccanica non è tanto sul merito dello stesso, ma “perché hai cambiato i contenuti della piattaforma senza discutere con noi?”. Questo è sufficiente per dire di “no”. Ecco, mi pare di poter dire che questa sia la tensione generale, in altre parole l’affermazione del diritto di decidere sulla propria vita e un rapporto con le organizzazioni di rappresentanza sociale e politica riassumibile nella frase “ciò che dici, devi farlo, altrimenti non ti crediamo più”. Anche in questo modo d’essere – oltre che sui contenuti di fondo – c’è la connessione tra i giovani operai metalmeccanici e gli altri giovani scesi in piazza a Genova. Lo stesso sindacato confederale si trasformerà dentro questo quadro – al di fuori delle antiche appartenenze ideologiche che sono state cancellate. La storia passata conta molto, ma l’adesione e l’attitudine a considerare queste nuove generazioni come un soggetto capace di critica e azione è indispensabile per trasformare se stessi e, quindi, essere all’altezza di una sfida che, per definizione, è globale… Parola di uno che sta celebrando il centenario della propria organizzazione.
(Gabriele Polo)